Secondo gli ultimi dati diffusi dall’Istat sarebbero 6 milioni e 788 mila le donne tra i 16 ed i 70 anni che sono state vittime di fenomeni di violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita. Nell’azione di contrasto a questo fenomeno, multidimensionale e in costante evoluzione nel nostro Paese, la condizione lavorativa e l’indipendenza economica sono importanti nella misura in cui consentono alla donna di sfuggire a condizioni di subalternità psichica rispetto al partner o altri familiari, garantendole una maggiore realizzazione sotto il profilo personale e sociale e maggiori tutele e sicurezze. Se è vero che i contesti e le culture di provenienza, le condizioni sociali di vita ed i livelli di istruzione influenzano il livello di esposizione a possibili rischi, il riconoscimento di situazioni di pericolo e la stessa capacità di reazione e risposta, è il lavoro il fattore che, più di altri, può fare la differenza, in quanto elemento di integrazione fondamentale nel costituire quella rete di relazioni in grado di offrire aiuto a chi è vittima di atti violenti. Dal report della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, elaborato su dati Istat in occasione del 25 novembre 2021, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, emerge, infatti, che tra le donne inoccupate, ma in cerca di lavoro, ben il 5,8% sia stato vittima di violenza nell’ultimo anno (contro una media generale del 4,5%). Un dato che potrebbe essere peraltro fortemente sottodimensionato, considerato che proprio in corrispondenza di situazioni di disagio educativo ed economico si riscontra minore propensione alla denuncia degli episodi di violenza. Anche laddove la violenza si manifesti con maggiore gravità, come nel caso dello stupro o del tentato stupro, è più frequente che la vittima sia una donna non lavoratrice: il 9,2% delle donne in cerca di occupazione dichiara di aver subìto una violenza di questo tipo nel corso della propria vita contro il 5,4% della media generale. Come invertire, dunque, il trend? Una più elevata emancipazione professionale può indurre le donne verso una maggiore propensione alla denuncia, poiché le rende non solo economicamente più indipendenti, ma anche più consapevoli dei comportamenti maschili. “In quest’ottica la parità di genere intesa soprattutto come parità di accesso al lavoro, a posizioni professionali coerenti con i livelli formativi posseduti, a condizioni contrattuali adeguate, a pari livelli retributivi non è solo un diritto fondamentale, ma la condizione necessaria per contrastare i fenomeni di violenza”, ha dichiarato Marina Calderone, Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro. Il report è disponibile sul sito www.consulentidellavoro.it
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